SONO UN BEGINNER

Ciao, sono Alessandro Palma, ho ventinove anni, scalo da quando ne avevo dodici e sono un principiante.

Ma come un principiante direte voi? Un principiante dico io. Ero a scalare con il mio amico Diego una volta e, rientrati a casa, mi disse: “Fisicamente nulla da dire, sulla tecnica ci sei… Ma tatticamente sei un principiante!”. Era fine 2023, sei mesi fa. Aveva veramente ragione. Dopo una carriera dedicata al competere, mi sento uno scalatore alle prime armi.

Questo è indubbiamente uno dei lati più incredibili e peculiari dell’arrampicata, un aspetto che davvero poche discipline possono vantare di avere. Sono arrivato a competere alla pari con i migliori scalatori italiani del mio tempo, ho rappresentato l’Italia e mi sono confrontato con i migliori climber al mondo, talvolta battendone anche qualcuno. Come faccio ad essere un principiante? Semplice: la roccia. I fanatici del “Eh ma è tutto parkour” saranno felici nel sentirmi dire che il bouldering moderno sia distante dall’arrampicata vera e propria. Certo che lo è. Per fortuna che lo è! Primo perché è indice di un livello che cresce in maniera esponenziale e per stare al passo con i tempi e mettere in difficoltà i top competitor, devi scendere a compromessi. Secondo perché così posso ricominciare a scalare.

Dopo il momento del commiato, bellissimo attimo fuggente che condensa anni di gioie e dolori, il richiamo all’ambiente naturale si è fatto sentire con audacia. La bellezza intrisa nelle forme scolpite dall’acqua e dal vento attira un climber come la cacca con la mosca. Pensate che sia bello volare ed atterrare sullo sterco? Provate a stringere una tacca dolorosa o a prendere una bella schienata su un pad. C’è meno puzza, ma non so cosa sia meno piacevole… Armato delle mie caratteristiche da competitor, mi sono tuffato fuori ed ho subito capito che avrei dovuto faticare non poco per mettermi al pari.

La cosa che più mi ha impressionato è il tempo. In gara hai cinque minuti. Impari a indurre il momento. Sapete che cos’è il momento? È l’istante in cui mente e corpo viaggiano all’unisono. Tu non sai cosa stai facendo, ma sei su e stai su. Durante una gara non puoi aspettare, devi farlo ora. Sulla roccia invece devi aspettare, è imperativo. Aspetti la condizione, aspetti la sensazione di pelle giusta, il vento che si alza, l’ombra che gira. L’attimo in cui la temperatura sale ma l’umidità non si fa ancora sentire. La natura ha il coltello dalla parte del manico, decide lei se concedersi e, soprattutto, quando. E tu devi farti trovare pronto.

La scalata su roccia ti obbliga ad essere paziente, i tempi si dilatano. In due ore di boulder indoor esco dilaniato. Riposo un minuto tra un blocco e l’altro. Fuori, specialmente in falesia, riposo decine di minuti prima del tentativo buono. Se parto subito, casco. E poi quanto è difficile imparare a riposare su un tiro? Una scrollata e via? O il tempo per dei respiri ampi e profondi? E se poi mi raffreddo? Allora magari faccio due movimenti e poi riposino e poi parto? Se con le gare entravo in mille automatismi, con la roccia ricomincio da capo.

Fortunatamente qui nella zona ho boulder e vie storiche davvero interessanti, oltre che figure mitiche che hanno tanto da insegnarmi. Un pomeriggio sono andato con un gruppo di amici a Miroglio, ci ha raggiunto Giova e ci ha fatto provare dei passaggi che risalgono agli anni 80. Boulder che hanno quaranta e passa anni di storia. Oppure Belgarath, quarant’anni, ma così attuale. Incredibile pensare che la FA risalga ad un’epoca così lontana, quanto bisognava essere proiettati nel futuro per avere quella visione?

Quindi sì, sono Alessandro Palma, ho ventinove anni, scalo da quando ne avevo dodici e sono un principiante. Orgogliosamente direi. Cerco di scalare fuori almeno una volta a settimana, di imparare da quelli più bravi ed ogni volta che torno a casa non vedo l’ora di tornare ad appoggiare le mani sulla roccia!

MA METTILA UNA RONCHIA

La mia opinione non richiesta sulla tracciatura della prima prova di coppa Italia boulder a Prato.

In quasi vent’anni di arrampicata, posso dire di aver tirato una discreta quantità di appigli di resina, soprattutto se consideriamo la mia carriera agonistica. Non son mai stato uno di quelli baciati dal talento (per fortuna forse) e mi son dovuto conquistare ogni obiettivo facendomi un gran culo. Questo ha tanti lati positivi, me ne rendo conto ora. In questi anni di appigli ne ho tirati, ma ne ho anche avvitati.

Pertanto, con un po’ di coscienza di causa, mi esprimo riguardo alla tracciatura di Prato. No, non c’ero. No, non mi ha entusiasmato guardarla su YouTube. Erano troppo duri per il livello degli atleti? Parlano i numeri. Quindi la boccio? Andiamo con ordine.

Partiamo da un concetto base base: la tracciatura si scinde in eventi e sala. Negli eventi metto la garetta di carnevale e le Olimpiadi, con tutte le sfumature di mezzo. Nella sala metto la scalata di ogni sera come la didattica e l’allenamento. Oggi parliamo di eventi. Ogni evento ha una sua prerogativa: divertimento, spettacolo, classifica… Parliamo di coppa Italia. La priorità è solo una: fare la classifica. Mettere ordine tra le decine di atleti che son sempre più forti e sempre più completi. Il mezzo per raggiungere questo scopo, ovviamente, è la tracciatura. Da questo presupposto nasce il come dev’essere un blocco gara.

L’unica condicio sine qua non di un blocco gara è che faccia classifica. Che poi la classifica pulluli di top o solamente di zone, poco cambia, nel momento in cui i blocchi scremano la classifica, vuol dire che la tracciatura è stata buona. Siamo tutti d’accordo nel dire che una gara con tanti top, salti e slanci sia più appassionante da vedere, ma tutto è un accessorio. In primo luogo serve la classifica, in secondo luogo serve testare il livello degli atleti. Cosa vuol dire nel concreto? Testare gli atleti vuol dire metterli in condizione di poter dimostrare il loro reale valore su un determinato stile. Se poi vogliamo raggiungere certi standard internazionali, alzare il livello delle competizioni è non utile ma necessario. In più le gare “dure” esaltano le capacità del forte, che vengono spesso offuscate dalle gare “facili”, che avvantaggiano il medio livello. Per parlare di fatti: Biagini è stato superiore in finale. Ha meritato la vittoria. Ha vinto. Fine. L’ha fatto con tre zone? Sì, ma ha vinto e la gara ha premiato chi è stato il più bravo nella fase finale, fine. 

Le aspre critiche che ho sentito e letto su internet (anche, purtroppo, da stampa del settore) dimostra che il movimento sta crescendo, ma senza alcuna coscienza sportiva. L’utenza desidera lo spettacolo, non desidera che gli atleti migliorino o che si faccia una classifica. Tanto vale allora guardarsi in loop il video delle gare di psicobloc. Se vogliamo avere qualche atleta italiano che padroneggia il panorama internazionale, le gare devono salire di livello. Menzione d’onore al Maffei che c’ha messo la faccia, chiedendo al suo team di proporre un livello veramente alto.  Criticare sparando a zero non serve a nulla, soprattutto da chi è abituato a sparare a zero senza alzarsi dal divano. Se poi proprio volessimo strafare, non sarebbe male trovare il modo di portare qualche tracciatore italiano in coppa del mondo, gente che merita ce n’è! 

Traiamo quindi le conclusioni. Un blocco in una gara deve dare spettacolo? Mah, non è necessario. Deve fare la classifica? Assolutamente sì. E’ un male che gli atleti non facciano top? No, se la classifica finale c’è ed è equilibrata, il top non è una necessità assoluta. Sono più divertenti le gare con molti top? Certo. Come sempre, ogni cosa va contestualizzata e questo mi sembra proprio il caso. Il team di tracciatura che ha lavorato a Prato ha il mio pieno appoggio e supporto, per quel poco che può valere. Ricordiamoci sempre che se le cose accadono, è perché qualcuno le fa accadere. Se le gare si fanno, è perché gli atleti partecipano, i tracciatori tracciano, le società ospitano, i tecnici tecnicano… Mi piacerebbe veramente vedere più vicinanza a chi fa e meno sparate da divano, utili solo ad acchiappare quattro like messi da altri quattro divanari. E soprattutto, mi piacerebbe vedere un po’ di supporto agli atleti che, sebbene non siano estremamente competitivi a livello internazionale, hanno tutto il bisogno di qualche pacca sulla spalla.

L’ATLETA DI SUCCESSO

Diamo il via alla serie di featuring. Primo ospite? Fabio Palma. Argomento? Le cinque cose che uno sportivo deve avere per diventare un atleta di successo. A te Fabio!

Si sarebbe tentati di dire Passione, come prima e forse unica parola chiave per un atleta di arrampicata, quindi un agonista, ma ci sono troppi controesempi da altri sport per liquidare così la questione. Chiunque abbia letto il capolavoro Open, la biografia di Agassi, sa che puoi diventare numero 1 al mondo in Sport milionari con milioni di praticanti senza provare reale passione per quello sport. Anche lo splendido Podcast di Bsmt din Tamberi rivela che la vera passione sportiva di Gimbo è sempre stato il basket, non certo il salto in alto. Divertimento? Certo agli inizi si, diciamo prima dei 15 anni, ma dopo anche la parola divertimento stona molto con il concetto di essere atleta. Ci si diverte in falesia e a far blocchi, molto molto meno in estenuanti allenamenti la domenica quando fuori c’è il sole. “Vivere per allenarsi, che è molto diverso che allenarsi 8 ore al giorno”, così Andrea Bargnani, in un altro Podcast di BSMT, assolutamente rivelatore.

Ecco allora le mie parole chiave, faranno male anche a molti atleti, ma non trovo davvero errori anche a rileggere…

Consistenza. L’atleta non sgarra mai, anche in Off season, e per anni. Socialità, nutrizione, relazioni extra… Tutto è in funzione della propria carriera. Che può durare 5 o 20 anni, ormai. Si è numero 1 al mondo anche a 36-39 anni in sport molto più intensi e duri dell’arrampicata nelle tre discipline. Se il gelato non te lo puoi permettere e dormire 9 ore è necessario, allora al prossimo gelato lo mangerai quando ti ritirerai e a letto a dormire andrai sempre alle 22.30 massimo. Sapendo che sarai comunque un privilegiato, perché in certi sport la prima seduta è alle 6 di mattina e la Socialità dell’arrampicata, che comunque é molto alta perché ci si allena in palestre fra la gente, è una chimera sconosciuta

Resilienza. Mai lamentarsi, mai ripetersi e ripetere ad altri, sono stanco. Solo al proprio allenatore, che deve gestire la scheda quotidiana. Lamentarsi è l’anticamera della sconfitta.

Pazienza. Spesso all’inizio si migliora velocemente soprattutto se si ha talento. Ma quando arrivi prima a livello senior italiano, poi europeo, poi mondiale, i miglioramenti diventano lenti, talvolta lentissimi. Con ricadute possibili e notevoli. I Podcast di Tamberi e Bargnani già citati sono perfetti anche in questa spiegazione.

Contesto. Il giusto allenatore, la giusta società, la giusta federazione, la giusta famiglia. Un mio ottimo atleta a mio parere prospetto di livello senior mondiale aveva ad esempio la famiglia sbagliata. Ma tutto incide. Un allenatore non ha mai più del 20% del merito e non dovrebbe mai comparire a fianco dell’atleta su un podio. Dirigenti e tecnici federali devono avere un profilo bassissimo. Devono lavorare tantissimo tutto in funzione dell’atleta. Senza premiazioni, riconoscimenti. Non sono loro a scendere nell’arena e a sopportare tensioni e pressioni indicibili e ignote in altre professioni. E devono sostenere e promuovere la meritocrazia, grande punto debole dell’Italia nel lavoro (anche nelle aziende private italiane, spesso), nelle università, nello sport. 

Fiducia. L’atleta deve avere sempre una fiducia massima. Soprattutto perché non esistono professioni con tal numero di sconfitte. Nel basket sei un Campione se tiri da tre con il 40 per cento. Significa che sbagli 6 volte su 10…Beatrice Colli ha perso tantissime volte, sia in Speed che in Boulder, pur essendo quel giorno più forte di tutte. Nel 2023 fu prima nelle qualifiche di una CI boulder, uscì per la semifinale in forma strepitosa, in 3 boulder su 5 non usò delle prese… Mancò la finale ed era, quel week end, la più forte. Altre volte puoi essere ben al di sotto del tuo standard e finire dietro quasi senza spiegazione. La spiegazione c’è sempre ma magari arriva dopo settimane o mesi di analisi. Il Campione archivia la sconfitta in pochi minuti. E questa rivoluzione culturale fu planetariamente divulgata prima da Jordan poi da Bryant e Phelps. Prima anche i campionissimi deflagravano alla prima grande sconfitta (Borg, Hagler, Mcenroe…)

Tocca a me. Allora io dico… Il coraggio. Una cosa che non può mancare all’atleta di successo è il coraggio. Essere coraggiosi non vuol dire non avere paura, vuol dire affrontarla, farci amicizia. Un pugile, prima del match, ha paura. Paris, a Kitzbuehel, ha paura. Bagnaia, quando scavalla verso la San Donato a oltre 350 km/h, frena con due dita ed esegue una staccata esagerata con il posteriore che galleggia, ha paura. La paura non deve essere un limite, dev’essere l’alleato che ti conferisce quel pizzico di attenzione in più.

Un atleta deve avere la visione sul lungo periodo. Ogni giorno c’è un piccolo obiettivo, ogni ripetizione è un piccolo obiettivo. L’essere capaci di vedere oltre è una delle capacità più utili. Oggi non riesco, non è oggi che devo riuscire, dovrò riuscire, occorre separare la performance dalla pratica. 99% di lavoro e 1% di gara, non ci sono scorciatoie, non esiste la pozione magica, né gli allenamenti miracolosi dove dedichi poco e ottieni tanto, si avanza con tempo,sudore e fatica. Se non hai la visione sul lungo periodo, molli. 

La creatività è un grande alleato. Nell’alto livello, essere capaci a trovare soluzioni alternative paga, se non sei capace, non arrivi. Il sorpasso di Rossi su Stoner, il primo triplo lancio eseguito in una gara di boulder… Sapete da chi? Gabri Moroni. Se tutti fanno in un modo, non è sempre detto che non si possa fare meglio. 

Voglia di scoprire, sperimentare, trovare alternative: la curiosità. Un grande atleta ha una fame senza eguali di sapere, di conoscere, di scoprire. Si guarda, guarda gli altri, chiede, frantuma le palle. Lo fa in modo trasversale, non solo legato al mondo del suo sport. Anche su questo aspetto si può migliorare, è una capacità che può essere stimolata.  “Se non cerchi di sapere non saprai né avrai mai.” Di chi è questa?

Confidenza in sé stessi, importantissima. Avere fiducia in sé e nei propri mezzi, nel percorso fatto, nel suo sapere. Molti la scambiano con l’arroganza. Non è arroganza, è sapere di poterlo fare, Ibra insegna. Shauna Coxsey, ai tempi d’oro, usciva dall’isolamento camminando. Aveva già vinto praticamente. Non c’è fretta, non s’è spazio per i dubbi. C’è solo la voglia di prendersi ciò per cui uno ha lavorato duramente. Per molti è innato, per altri (il sottoscritto) è una capacità che va allenata, proprio come la forza di dita.

Per finire, ancora Fabio: delle tre discipline sicuramente la più mentalmente difficile da allenare è la speed. Trovo veramente pochi paragoni anche negli sport più mentalmente usuranti, certamente il salto in alto, ma insomma non tanti. Eppure anche in Sport molto ludici si può arrivare a una pratica mentalmente spinta, e inevitabilmente questo consistency porta all’eccellenza. Steph Curry quasi 10 anni fa rivoluzionò lo sport più ricco del mondo con il tiro da tre. È il miglior tiratore da tre, ovvero da lunga distanza della storia NBA. Bene, Curry in allenamento oltre a tutto il resto con gli altri si isola e si esercita con 500 tiri al giorno. 3500 la settimana. 14000 al mese. 168.000 all’anno. In 15 anni di carriera fanno oltre 2,5 milioni di tiri da tre. In realtà contando quelli da ragazzino, Steph ha detto, dovrei essere a 8 milioni. Sapete quanti tiri da tre gli sono venuti in 15 anni in partita, ed è il primo per distacco? 3500. Con circa il 40% di risultati. Ora, io ho visto più volte atleti e atlete di arrampicata sbuffare per la richiesta di ripetere un aggancio di punta in un boulder, dopo che gli era venuto magari dopo 10 tentativi. “L’ho già fatto”, e poi vedi con la coda nell’occhio che agli altri sbuffa. In quel momento ho sempre pensato che non andranno mai da nessuna parte. Faranno anche finali di Coppa Italia. Forse anche podi. Magari anche qualche semifinale di Coppa del Mondo, chi lo sa. Ma avranno sempre davanti qualcuno o qualcuna nel mondo capaci, senza alzare gli occhi al cielo, senza mostrare una faccia stanca e annoiata e nervosa, di riprovare per venti volte un aggancio di punta. Non so se in arrampicata ci sarà mai qualcuno capace di provare nella sua vita 8 milioni di agganci di punta. Ma certamente c’è già qualcuno e qualcuna che lo ripetono 10 volte invece di una e basta. E avrà 10 volte i risultati, perché “il talento è grandemente sopravvalutato” KB24

AH BEH, CON LA GINOCCHIERA

Hot topic del momento… Vogliamo parlarne? E parliamone!

Recentemente ho avuto l’occasione di fare una chiacchierata con Alberto Milani su ClimbingRadio e mi son nati alcuni pensieri. Partiamo da un presupposto: questa è una discussione a tema etico e, come è risaputo, l’etica è un concetto strettamente personale e soggettivo. Ci sono cose che assolutamente non vengono accettate, da  nessuno in nessuna maniera e senza nessuna scusante: scavare o migliorare le prese, toccare il pad (anche se è solo sfiorato, anche se non aiuta, anche se, anche se…), tirare i rinvii, partire da mezzi accovacciati se è sit, usare più pad per partire sit, fare il giro a casa di Giove per eludere il crux e similari. Ci sono cose che invece vanno un po’ da persona a persona: i primi rinvii passati, i segni di magnesite, la liquida su roccia, i ventilatori, la ginocchiera, la musica. Un bel minestrone…

L’etica, oltre ad essere personale, è una cosa che si evolve con il climber. Se da neofita scali con uno che tira i rinvii, appenderti a due mani ad ogni fettuccia che incontri ti sembra normale. Se hai la fortuna di scalare con personalità integerrime, la tua etica sarà più ferrea da subito, altrimenti dovrai pian piano aiutarti da solo per crescere. Io stesso negli anni ho commesso errori che ora non rifarei, penso sia normale e che succeda a tutti. Le gare mi hanno insegnato però che tanto è inutile barare, i risultati ricercati barando non arrivano mai. L’agonismo, ancora una volta, si rivela la miglior scuola. I campioni, che non sono semplicemente quelli che fanno belle performance, ma quelli che fanno qualcosa per far crescere il movimento (vedo tanti bravi scalatori, ma pochi campioni) hanno l’onere e l’onore di dare con il loro operato l’esempio alle nuove generazioni. Per fare un esempio, una persona come Paolo Leoncini ha avuto un ruolo fondamentale nel mio percorso, a livello di ispirazione e di aspirazione, seppur non sia stato il più forte climber del mondo. Contrariamente, molti climber, anche più forti di Paolo, mi repellono e basta, nonostante siano capaci di ottime salite. La persona conta più dei numeri.

Sulla scia del ragionamento sulla persona singola, mi sono spesso interrogato su quanto sia lecito utilizzare attrezzatura di nuova generazione che effettivamente agevola l’arrampicata. Mi sono interrogato sulle regole del gioco, su come si evolve il mondo in questi anni, sugli errori commessi in passato, cercando di imparare e di ponderare la mia opinione, senza farmi condizionare da stati d’animo dettati da amicizia, gelosia, antipatia e quant’altro. Ebbene, l’illuminazione mi è arrivata durante una intervista con Albertaccia, che ancora ringrazio per avermi dato l’occasione di fare quattro chiacchiere. Alla base di tutto, secondo me, c’è il rispetto. Il rispetto si può dare, si può guadagnare, si può negare. Io stesso non provo il benchè minimo sentimento di rispetto di fronte a molti top climber, che reputo vacui e superficiali. Il rispetto risiede nei modi, sono sempre i modi a definire l’uomo.

Contrariamente a quanti molti pensano, ripetere oggi un tiro storico degli anni 90 non è minimamente paragonabile alla performance del primo salitore. Parlando con Seve, ci siamo trovati d’accordo sul fatto che ripetere oggi Noia non è paragonabile in termini assoluti con la performance che lui ha effettuato decine di anni fa. I mezzi, la visione, i limiti… Non parlo di kneepad o di ventilatori, parlo di mettersi le scarpette, legarsi e partire sul tiro. Già solo per questo, un ripetitore di un’epoca diversa da quella della FA dovrebbe stringere la mano al primo salitore, senza andare ad impelagarsi nel ginocchio, nel ventilatore, nel video imparato a memoria. Già solo sapere che uno è salito prima di te, cambia le carte che hai in mano. Ma passiamo ai giorni nostri. 

Kruder ha recentemente ripetuto un 9a storico, senza utilizzare la ginocchiera e “denunciando” il fatto che con il kneepad il tiro non è 9a, quindi uno non la deve usare e se la usa non deve darsela 9a e se la usa manca di rispetto al primo salitore e non vale e non va bene. Fermo restando che stimo molto Krudi per ciò che ha scalato, ciò che ha vinto, per le sue doti canore sotto i sassi nell’RMNP, parlo di lui, per due motivi. Il primo: giù il cappello per aver espresso la sua opinione sul knee pad, indipendentemente da come uno la pensi. Se uno ci mette la faccia, merita rispetto.Il secondo motivo è: non puoi obbligare qualcuno a fare qualcosa che secondo la tua etica è più corretto (limitiamoci alla scalata, che c’è già tanta ciccia sul fuoco). Puoi dare il buon esempio, ma secondo me costringere qualcuno a fare qualcosa è sbagliato, ed ora parlo più ampiamente che il singolo Kruder. Se tu non sei d’accordo con la ginocchiera, non usarla, fine. Non c’è alcuna utilità nell’alimentare sterili polemiche a riguardo. Tutti usiamo scarpette più avanzate, magnesio più ricercato, creme per seccare la pelle… Eppure nessuno dice nulla a riguardo! Il processo di evoluzione che riguarda i materiali c’è, è costante ed è pressoché infinito. Una Drago è sicuramente più performante delle Laser che si usavano trent’anni fa, e quindi no dovremmo usarle? Per ripetere le vie di Bonatti, dovremmo legarci con il canapone e usare gli scarponi di cuoio?

La ginocchiera aiuta, è vero, non poco. Bisogna però anche saperla usare, prenderci la mano, abituare l’occhio. Dove molti climber vedono una minaccia all’integrità dei tiri storici, io preferisco vedere modernità. Vedo un tiro che ha trenta, quarant’anni che è ancora moderno.  Vedo che i climber hanno voglia di cimentarsi e scoprire com’era l’arrampicata, vedo vie che tengono botta e rimangono il sogno di molti. Noia, per esempio, rimane un sogno erotico di molti climber, sebbene non sia più la via più dura d’Italia e nemmeno più di Andonno. Sono convinto che Seve sia felicissimo di vedere i giovani ripetere il suo tiro, con la consapevolezza di aver liberato una cosa visionaria negli anni 90. E se qualcuno usa la ginocchiera per salire, chissenefrega. Seve (continuo ad usare lui per esempio perché c’è un certo tipo di confidenza) ha fatto una cosa che non è minimamente comparabile con le salite di oggi e questo aspetto non è sicuramente messo i dubbio da uno che incastra il ginocchio. Sharma veniva criticato perché non usava i piedi. Ora Sharma è considerato the GOAT. Il poliuretano fa schifo, meglio la resina. Esiste quasi solo più poliuretano. I salti non sono arrampicata. I ragazzini oggi saltano come se nulla fosse e le tirano come i climber old school. Le cose cambiano, i tempi vanno avanti e il mondo corre ad una velocità spaventosa. Chi si crogiola nei fasti del passato perde solo occasioni. Specialmente se i fasti sono quelli di altri, tra l’altro. 

Quindi bisogna utilizzare la ginocchiera sempre? E sempre il ventilatore? Ovviamente no, ci mancherebbe. Ciò che voglio dire è semplice: ci sono cose gravi, che è ovvio che non siano lecite. Scavare, modificare l’ambiente, migliorare gli appoggi. In breve, i comportamenti sbagliati sono quelli che, dopo il mio passaggio rendono diversa la linea. Non parlo solo di una presa scavata, ma anche banalmente di un landing spianato sotto una highball che già era stata salita. Nel momento in cui invece uno usa un ventilatore, un kneepad, un tick più lungo… E’ la sua etica. Pochissimi di noi climber, parlo di leggende internazionali che hanno fatto la storia, possono permettersi di criticare. Una volta che segui la linea, senza sconfinare in altri passaggi, ma trovi un metodo più facile, che male c’è? Se tu sai incastrare, io no, e passi con un beta più facile, che male c’è? Bella per te, io imparerò. C’è davvero bisogno di alimentare polemiche su chi usa cosa quando e perché? E soprattutto… Vogliamo fare i mega puristi assoluti? Allora utilizziamo gli stessi identici mezzi dell’epoca. Stesse scarpe, stesse difficoltà nel progredire con l’allenamento, l’ignorare se una linea sia salibile o no… E’ impossibile? Ma va? Ma pensa.

Il rispetto sta nei modi. Scalare oggi Noia, continuo sulla scia, con uno stile moderno, è un omaggio a Seve, non una mancanza di rispetto. Salire con un nuovo metodo e avere l’umiltà di dire che si ha ripetuto la via, ma che con quella modalità risulta più facile non è mancare di rispetto. Occorre però inchinarsi al primo salitore e complimentarsi per il suo operato. I top climber, vedi Skofic a Flatanger, lo fanno spesso. L’ho fatto con, senza come l’hai liberato è durissimo, complimenti! Fine. Già solo il sapere che uno prima di te è passato cambia le carte, come dicevo poc’anzi. Le polemiche sono per i poveri nei modi. Uno scalatore, specialmente se è un bravo scalatore, dovrebbe a parer mio dare il buon esempio con le azioni e esprimersi con dei modi che troppo spesso vengono dimenticati. Il mondo va avanti, nessuno vuole rimanere indietro, ma quanti, effettivamente, ci rimangono?

IL CANTO DEL CIGNO

E così alla fine è successo. L’ultima gara. E ora?

Partiamo senza mezzi termini: se sono tutte così, vorrei un’ultima gara ogni domenica! Questo ovviamente non è possibile, per fortuna. Vi chiederete come mai per fortuna, se è così bello? E’ bello perché irripetibile. Non ci potrà mai essere un’altra ultima gara, il suo valore enorme sta nella sua spregiudicata unicità. E’ stata la gara più emozionante della mia vita, posso giurarlo. Non la prima finale, non la prima coppa Italia, non i podi, non la coppa del mondo. Lei, il mio canto del cigno.

Cos’è il canto del cigno? E’ una credenza popolare, secondo la quale il cigno, all’approssimarsi della morte, celebri l’avvenimento con dei canti gioiosi. In senso figurato, è l’apoteosi. La cosa più grande che puoi fare, il traguardo più alto che puoi raggiungere. Qualcuno potrebbe dire: ma come l’apoteosi? Sei arrivato dodicesimo, in passato hai vinto in coppa Italia, vale più un dodicesimo posto che una medaglia d’oro. Eh, dipende. Ci sono due modi di misurare l’andamento di una gara: il ranking e la performance. Il ranking è la classifica, è ad un livello più basso, o meglio, più superficiale. La performance è molto più profonda come misurazione, più difficile, richiede sensibilità, onestà e consapevolezza. A volte vanno di pari passo, altre si distaccano. Luca Boldrini ad esempio le ha sposate al meglio ad Orobia, un ranking perfetto ed una performance perfetta. Io ho avuto una performance perfetta, seppur il ranking sia inferiore rispetto a molte delle mie gare. Andiamo nel dettaglio.

Ranking: buono. Dodici atleti tutti con tre top, tutti molto simili come azione arrampicatoria, solo i migliori sei sono entrati in finale, io son rimasto fuori per i tentativi. Ci sta, è il boulder, gestione dell’errore. Da quando sono entrato in gara sabato a quando son sceso dall’ultimo blocco domenica, tutto è stato magico. Ero completamente assorto in ciò che stavo facendo. Non percepivo pensieri, la mente ed il corpo si muovevano all’unisono senza che io dovessi pensare a cosa fare. Me ne sono accorto guardando i video, sul momento ero solo estremamente lucido ed altamente assente. Il livello di attivazione era alle stelle. Entravo ed uscivo continuamente dalla bolla appena il timer richiamava l’inizio del mio tempo di lavoro. Riguardando i video, mi sono accorto di aver passato tantissimo tempo a guardare il blocco, mentre in gara la mia percezione era diversa. Era tutto giusto, tutto al suo posto. Non c’era fretta. Non c’era tensione. C’era una fiamma dentro che mi faceva sentire un leone. C’era una soglia di attenzione così alta che mi consentiva movimenti fulminei. Percepivo il mio corpo nello spazio come mai prima. Ero totalmente immerso nel momento. E’ stata un’emozione fortissima.

Emotivamente è stato una bomba, sia nel senso che è stato figo, sia nel senso che mi ha travolto. Il sabato è iniziato soft, risate nel riscaldamento con gli amici di una vita. Sensazioni così così, ma la gara è fuori, ho imparato a non preoccuparmi. Uscendo, Il Vecio ha preso il microfono e ha annunciato che mi stavo approssimando al chiudere la mia carriera proprio con questa gara. Inutile dirlo, non me l’aspettavo e mi ha fatto venire la pelle d’oca. Ogni boulder, i giudici mi ringraziavano per la mia carriera, per cosa ho fatto, ricordavano episodi vissuti negli anni. Mi hanno accompagnato in maniera straordinaria. Comunque la qualifica va bene e via, emozioni già a gogò. Ma la domenica? Estrema! 

Già tra l’isolamento prima delle qualifiche e quello prima delle semi l’atmosfera cambia. Ogni atleta è più concentrato, più solitario. Ci si scalda tutti insieme, ma si fa sul serio e ognuno pensa un po’ di più a cosa deve fare. Ho incentrato il riscaldamento sul semplice fattore attivazione. Pochi attimi prima di uscire, la prima dura prova: Giulia si avvicina, mi chiede se è il momento, mi abbraccia. Era tutta la settimana che ricevevo attenzioni da molti cari, ma lì sul momento è stato un bel colpo. Chiunque abbia condiviso con me questo lungo cammino, anche solo in parte, sa cosa vuol dire per me fare le gare, quindi penso che possa facilmente capire. Simo ha fatto il suo, in maniera teatrale ed epica come ben gli si addice. Il Gladiatore. Faccio il primo. Vado sul due, non mi son mai sentito così. Affronto il tre, arrivo al quattro. Scendo. Cristiano, leggenda dell’ambiente, posa la cartellina sul materasso. Lo fa a modo suo, solenne, posato. Si alza, mi abbraccia, poche parole. Gli attimi dopo me li godo tutti. Gli abbracci, gli amici, le parole. L’emozione mi ubriaca e mi stordisce. Diciassette anni dalla prima.

Onestamente, non pensavo di aver lasciato il segno. Sono stato bravo, certo, ma non un campione assoluto. Ho fatto tutto a modo mio. Impegno, dedizione, errori, rinunce, sacrifici, cuore. Sudore. Ogni sorriso, ogni abbraccio, ogni parola mi ha fatto capire che il mio modo di fare e di essere ha lasciato il segno più di qualsiasi medaglia. Atleti, tecnici, genitori. Mi ha travolto un affetto trasversale che mi ha lasciato senza parole. Sono stato il più forte, sono stato il più debole. Sono stato il più giovane nella mia prima semifinale, sono stato il più vecchio nell’ultima. Ho urlato, mi sono incazzato, ho sofferto. Per piangere ad una gara mi ci son voluti diciassette anni di esperienza, travolto da una carica di emozione pesante come un camion. Come un camion di camion, esistono? L’ultimo ruggito. L’ultimo blocco, una sorta di placca, fatta con le Furia Air che tutti mi denigrano! E ora?

Eh, ora. Smettere fa paura, come dice la Pellegrini. Penso un po’ a tutti. Alla fine le gare erano ciò che dettava il ritmo della mia vita. C’erano le gare e tutto il resto si incastrava dentro. Mi son chiesto più volte se smettere sia la cosa giusta. Secondo me lo è. C’è così tanto da fare lì fuori che neanche sono triste. Tanti mi han chiesto come mi sento. Leggero, mi sento leggero. Non mi pesava fare le gare, però comunque è un bel carico farle. Smettere fa paura, ma comunque basta un po’ di coraggio. Leggevo L’agenda rossa di Paolo Borsellino e pensavo… Questi due qui non hanno avuto paura di gente che li voleva far saltare in aria, vale la pena farsi fermare per le piccole paure di ogni giorno? Direi di no. Vale la pena innamorarsi, vale la pena emozionarsi, vale la pena godersi gli attimi. Vale la pena direi grazie all’arrampicata, per tutto cio che mi ha dato e per le persone che mi ha consentito di mettere sul mio cammino. Alla fine, diciassette anni di gare hanno costruito chi io sono oggi. Quindi grazie. E’ stato bellissimo.

Cortesia foto OutThere Collective (the best).

PENSIERI VOL. 1

Breve intro: son quasi vent’anni che scalo e, dentro di me, sono maturati alcuni pensieri inutili. In pieno stile “change my mind meme“, vi elenco qui si seguito alcuni pensieri a ruota libera riguardo al mondo dell’arrampicata e, se volete farmi cambiare idea, commentate o mi scrivete.

Quasi la totalità di chi dice di non scalare per il grado, mente. Probabilmente non è soddisfatto del grado sui cui riesce a muoversi. Probabilmente non ha abbastanza voglia di allenarsi e migliorare. Che non si scali solo per il grado ci sta, ma il grado rimane comunque un motore.

L’uomo che può fare risultato in coppa del mondo boulder oggi è Sartirana, bisogna investire su di lui. 

Ludo Fossali è il miglior atleta che l’Italia ha. Non si nasconde, non trova scuse, si fa un bel mazzo ed è praticamente sempre presente. Nella medaglia di Zurloni, mi piace vedere anche un pizzico di Ludo, non l’hanno ringraziato? Lo ringrazio io, grazie Ludo. 

Gli atleti sono sempre l’ultima ruota del carro. 

Gli arrampicatori si dividono in tre categorie: leggende, bravi, praticanti. Le leggende sono quelli che fanno, faranno ed hanno fatto la storia (vittorie in coppa del mondo, gradi al limite del loro tempo,…). I bravi sono quelli che non son leggende ma comunque se la cavano (podi in coppa Italia, atleti da coppa del mondo, gente da 8B/+ e 8c+/9a al momento, tanto per fare degli esempi). Il resto? Praticanti. 

Gran parte dei professionisti italiani sono scalatori e non atleti. I più atleti sono i velocisti. 

Il mondo dell’arrampicata è pieno di persone ancorate nel loro giardinetto, che non capisce l’evolversi del mondo e non riesce a stare al passo coi tempi. 

Citando Gabri, un buon atleta si adatta, non si lamenta. Mi sembra adatto ora più che mai. 

La differenza viene fatta dalle persone. Vedo molti mezzi e pochi campioni, forse bisogna cambiare strada. 

Sì, confermo, si usano i gradi per indirizzare il movimento. Io stesso l’ho fatto e lo faccio ancora ora. Volete un esempio? Il mio Bomba a mano. Prendi un blocco, lo gradi lasco senza esagerare, la gente va, lo fa e lo sgrada. Impazziscono, godono a scalare, a fare un passaggio e poi a sgradarlo. Intanto tu hai portato gente a provare i tuoi passaggi, contribuendo a tenerli puliti e a valorizzare aree. Non male no? 

Il BMI non è un test che scova l’anoressia. Può essere un campanello d’allarme, certo, ma ci sono troppe cose che lo possono influenzare. Trovo sbagliato anche indirizzare tutto l’hating contro le federazioni. A mio avviso, i primi ad essere tirati in causa dovrebbero essere i famigliari degli atleti, che troppo spesso lucrano sulla loro salute fisica e mentale per raggiungere i risultati sperati. 

Il personal branding è fondamentale per un atleta di alto livello di oggi. Ficchiamocelo in testa, non si chiudono più i contratti con gli sponsor con il livello, si chiudono con view e follower. Ti piace, non ti piace? Chissenefrega, così è. Se ti piace e ci credi, fallo. Se non ti piace, non ragionar di loro ma guarda e passa (semicit. D. Alighieri).

Il grado è soggettivo, io posso trovare facile un passaggio e impegnativo un altro, mentre altre persone viceversa. Non per questo bisogna fare le guerre sul grado, soprattutto con maleducazione.

Gran parte dei downgrade sono stati fatti sulla scia di simpatia o antipatia verso il primo salitore, piuttosto che sull’effettiva facilità della linea. 

Le gare si fanno in gara. È inutile fare le gare a chi è il più bravo la domenica in falesia, se vuoi misurarti tiri fuori le palle e fai un bel po’ di gare. Non una, tante, di quelle vere. Sempre che uno riesca a qualificarsi poi. 

La maggior parte degli scalatori si misura nella propria cerchia. È facile essere i più bravi del palazzo, scendete in piazza (cit A. Fantone).

Il mondo dell’arrampicata è pieno di stelle comete. Arrivano, salgono in fretta ed ancora più in fretta scendono. Non è la fiamma più alta, ma la fiamma che brucia più a lungo a fare la differenza. Motivo per cui Schubert vince il quarto mondiale o Misha è campione italiano 2023.

Lo sport in Italia è sottovalutato, deriso e soprattutto gli atleti troppo spesso non vengono capiti. (Guarda il video al link).

Per oggi può bastare, la messa è finita, andate in pace. 

Per le foto del campionato italiano boulder si ringrazia OutThere Collective.

SMETTO QUANDO VOGLIO

La prima volta che ho messo i piedi su un materasso per una gara è stato qualche anno fa, più precisamente il 30 settembre 2006. Dopo diciassette anni di gare il momento di dire basta è arrivato.

Quel trenta settembre lo ricordo ancora bene. Ero andato a scuola, impaziente di uscire e fare la mia prima gara. A quell’evento c’erano tutti i top climber del momento, dai local a quelli della coppa Italia. Io non me li ero tanto cagati, perché non è proprio che li conoscessi tutti, però le finali mi avevano incantato. Sognavo di essere lì con loro, di scalare leggero, di salutare il pubblico. Non sapevo che poi sarebbe diventato tutto realtà. Le gare giovanili, i TCC, le coppe Italia, la coppa ed il campionato del mondo. Piano piano, tra quelli considerati big, ci son arrivato anche io. Le vittorie e i podi però erano parte di un progetto più grande, una tessera man mano più importante per arrivare al puzzle completo, ovvero quello di competere con i più forti scalatori del mondo. Magari invece è solo una scusa questa, una giustificazione per la dipendenza che ti dà l’agonismo. Oggi vinci, domani vuoi vincere di nuovo. Ne vuoi sempre di più, vuoi ruotare il polso destro fino al full gas.

Vincere il campionato regionale era una tessera per la coppa Italia. I podi in coppa Italia erano una tessera per la coppa del mondo. Tutto bello, ma tutto ha una fine. Ad agosto 2017, undici anni dopo la mia prima gara, ho detto basta. All’epoca lavoravo al Punto, avevo ventitré anni ed ero all’apice della mia forma. Dentro però ero distrutto. Ero praticamente sempre impiccato con le spese, tutto il poco che avevo lo spendevo per migliorare a scalare e, quando poteva, la mia famiglia mi dava una mano. Una situazione che, per carattere, non potevo tollerare più a lungo. Ho cercato un lavoro e ho detto basta con l’arrampicata. Pensavo fosse la fine della mia carriera. Mi hanno detto che ero finito come atleta, come tracciatore e come tecnico, insomma, ero finito come arrampicatore. Nulla di più sbagliato.

Non è stato facile, lo ammetto. In due giorni sono passato da essere in divisa con i più forti scalatori al mondo ad un magazzino sporco, a scaricare scatole di scarpe (per di più pure brutte). Ogni fine è un nuovo inizio no? Ho iniziato a lottare per avere le ferie per fare le gare, non è stato più scontato andare (poi, da quando ho iniziato in Salewa, oro che cola, ma qui parliamo del 2017/2018). Non potevo decidere se andare o no a seconda di come mi sentissi, andavo o no a seconda dell’umore di chi mi dava le ferie. E l’allenamento? Doveva cambiare. Alla prima gara ho fatto cagare. Così alla seconda. Poi, per la prima volta, non sono entrato in semifinale. La cosa che una volta era il mio rodaggio pre gara, dopo due anni, era diventato uno scoglio enorme. Poi i ragazzini si tengono eh. Sono ripartito da me, dal mio piccolo puzzle e mi sono sfidato. Mi sono chiesto se fossi ancora in grado di fare finale. Mi son risposto di sì. La finale è arrivata. Poi un’altra ancora. Non ero finito allora. Non sono finito.

L’agonismo mi ha fatto da scuola e mi ha formato per tutto ciò che nella vita può accadere. Mi ha dato una marcia in più. Sacrificio, dedizione, visione di lungo termine, capacità di analizzare ciò che succede. Imparare tutto questo richiederebbe anni di studi. L’agonismo ti sbatte in faccia la realtà così com’è, cruda. Hai perso? Non sei stato all’altezza della vittoria, fine. Qualcuno è stato più bravo di te. Hai fatto tutto ciò che potevi? Hai sempre dato il massimo? Hai fatto la differenza nella tua preparazione? Oggi non si può dire che uno non è abbastanza. Ferisce, sei cattivo se lo dici. Il risultato qual è? Gente che non migliora. L’agonismo ti insegna che se oggi non sei all’altezza, ti fai il culo e lo diventi. Devi essere motivato però. Se non lo fanno nello sport, come potranno mai farlo nella vita? Conosco un sacco di gente che si allena e che si impegna, al dieci per cento. Quando inizia a fare fatica, quando una cosa gli sembra troppo difficile, trova scuse e lascia perdere. E se morissi domani, pensando a queste scuse e alle volte che hai mollato, non ti girerebbero le palle?

Tornando alle gare. Mollo, basta, finito. Ho avuto la fortuna di poter avere non una sola ma ben due carriere all’interno di questo sport di merda che è l’arrampicata sportiva. Me la son goduta, ho raggiunto cosa volevo raggiungere ed ora è il momento di dire basta. Sono molto più in forma di quanto son mai stato, ma manca quel progetto più grande che si cela nel puzzle. O meglio, il progetto c’è, ma mi porta altrove. Posso fissare le tessere incastrate fino ad ora, ho composto due puzzle che mi hanno dato tantissimo, soprattutto dal punto di vista umano. Ho incontrato persone stupende, che mi hanno lasciato tantissimo. A volte mi guardo indietro e penso a quando vedevo gli scalatori sulle riviste e rido pensando che con tanti di loro ho passato bei momenti sotto i blocchi di mezzo mondo. Uno su tutti? Gabri. Piccolo aneddoto. Gabri non è propriamente la persona più facile sul pianeta Terra, anche se ora si è addolcito. Dalla prima volta che l’ho incontrato, non ha mai tenuto per sé un segreto sull’arrampicata, se poteva aiutare, l’ha sempre fatto. Prima di partire per Monaco, nel 2017, ero davvero a corto di soldi (me ne dovevano tanti, non è che me li mangiassi alle macchinette). Gabri, senza che io gli dicessi nulla, mi scrisse per dirmi che se avessi avuto bisogno di qualche soldo, lui me li avrebbe imprestati. Poi, con calma, glieli avrei ridati. La differenza che fanno certi scalatori, viene conquistata senza staccare i piedi da terra.

E così, appendo il pettorale al chiodo. La paura c’è, certo. Il salto nel vuoto fa sempre paura. Però, se chiudo gli occhi, io voglio saltare. C’è la paura ma c’è anche la serenità, tanta. Ho imparato che con le mie capacità posso raggiungere traguardi impensabili. Voglio metterle a frutto, voglio saltare e vedere quanto riesco a costruire. Non voglio certo arrivare a quarant’anni ed aver sempre e solo tirato delle prese! Dentro di me, anche se mollo con le gare, ci sarà sempre quel bambino, con le scarpette della Decathlon, che passa davanti ad Alberto Gnerro in coda sui blocchi all’MDV 2006.

LA MAGIA DEL BOSCO

Vi è mai capitato di far un qualcosa che, nel momento in cui lo stavate facendo, vi ha fatto realizzare qualcos’altro? Detta così è un po’ confusa, provo a spiegarmi meglio.

A me è successo, partiamo da questo. Prendete una cosa semplice, come una routine, una roba che fate abitualmente e che magari fate da anni. Per me può essere salire su un sasso. Grossomodo, se vi guardate dentro e vi ascoltate, penso che ognuno di noi si accorge di com’è in quel momento, cosa sente, cosa percepisce. All’interno di quei gesti ripetuti, ci sono cose che vi vengono bene e altre che magari vi piacciono meno, tipo a me piacciono i salti e invece vedo tutti i santi sui blocchi più di metodo. Immaginate di diventare abbastanza bravi in quello che fate, tanto da rendervi conto che per progredire non basta più solo fare quello che vi piace e vi viene bene, ma per forza dovete imparare anche un po’ a fare il resto. Ovviamente, facendo le gare, per me è stato più facile. Però non parliamo di gare, parliamo di salire su un sasso. Ho salito nella mia vita centinaia di passaggi sui sassi, però sempre cercandomi un po’ ciò che mi veniva naturale fare. Certo, direte voi, mica uno deve sempre e solo sucare!

Scalando tanto con gente molto brava, mi sono reso conto di avere l’occasione di imparare tante cose nuove. Me ne son reso conto, ad esempio, con Teto sotto Amatoriale, a Scorace. Proprio lì sotto la mia storia comincia, da quelle due liste piatte. Solitamente me la cavo abbastanza facendo affidamento sulla mia forza fisica, ma arrivando vicino al limite, ho capito che dovevo implementare il mio arsenale di altre armi. Guardavo Teto ed imparavo, registravo, studiavo il suo approccio. Tornato a casa poi, ho messo in pratica tutto ciò che avevo notato. La pratica fa la grammatica, dopotutto. Durante la prima sessione, ero riuscito a cucire il primo movimento al resto del blocco, cadendo due o tre volte in cima, dove (secondo Teto) non si può cadere. Beh, si sbagliava a quanto pare!

Ultimamente è un bel periodo, sto scalando fuori quasi tutte le settimane almeno una volta e mi son misurato con alcuni passaggi di ottavo grado, riuscendo a risolverli piuttosto in fretta. Questa onda buona è ovviamente un circolo, che ti porta a esser sempre un pelo più sul pezzo ogni volta. Arrivato giù a Scorace, per il primo festival, la mia mente mi martellava… Amatoriale, amatoriale, amatoriale. La domenica, il primo giorno utile, è volato tra chiacchiere e classiconi dell’area. Una giornata meravigliosa. Arrivo sotto Amatoriale dopo aver mendicato qualche pad e mi tuffo nella pulizia. Al primo giro mi trovo all’ultimo passaggio, il bastardo, quello che mi aveva respinto. Giù. Easy, troppo easy, sto troppo bene! Continuo così per circa un’ora, con una ottima percentuale di riuscita sul difficile movimento d’ingresso. Cerco alternative, provo soluzioni, ma nulla. Arriva l’umidità e abbandono. Tornerò domani.

Il lunedì poi è stato speso nel nuovo e magnifico settore La Methode, dove i bei momenti in compagnia si susseguivano amabilmente. Risate, prese in giro, flasshoni di prepotenza. La vacanza ideale! Poi è arrivato il “fresco” e siamo tornati su. Scalare a Scorace, sul duro, è dannatamente difficile. La finestra di condizioni è più difficile da trovare lì che sull’Himalaya. Da quando il sole va via, passa una mezz’ora prima che la roccia si raffreddi, diventando accettabile per scalare al limite. Da lì in poi, hai circa mezz’ora o quaranta minuti di buone condizioni, prima che arrivi l’umido della notte. Cosciente di questo, ho dato due giri ad Amatoriale per accendermi un pelo e testare la forma. Che drop, scarico completo. Pensando al da fare, ho lasciato andare il desiderio di salirlo. Sono partito poco dopo, ho eseguito il primo movimento e mi son trovato in alto. Un respiro, la spallata. Il mondo si è fermato per un attimo, fermo in una suspense degna di Carlo Lucarelli. Ero ancora su. La ronchia, la ribalta, le urla, i pugnetti, le risate. Ho salito A Livello Amatoriale nel momento in cui ho accettato di tornare a casa senza averlo salito.

Proprio come nel dietro de L’oscuro seduto a Frise, quando ero completamente a mio agio fuori dai pad, nella roccia sporca, piuttosto alto da terra, anche sulla placca finale di Amatoriale ho realizzato di essere un passo avanti al giorno prima. Salendolo ho realizzato di come io sia migliorato come climber, a 360 gradi. Un anno fa, non sarei stato capace di salirlo. Non è il blocco più duro che ho fatto, certo, ma comunque mi ha messo alle strette. E’ scomodo da provare, non hai alternative, è alto, ogni caduta è una bella zompata. Poi non è che ci posso andare la domenica dopo, è dall’altro lato dell’Italia! Il “mental game” che mi ha messo davanti è stato un banco di prova importante, che mi ha permesso di realizzare tante cose. 

L’affetto che ho ricevuto in questi giorni mi ha travolto, la magia del Bosco di Scorace mi ha pervaso ancora una volta, regalandomi momenti felici e travolgenti. Una vacanza indimenticabile!

“AH ORBO!”

Milano Malpensa, una mattina di settembre 2016. E’ presto, abbiamo dormito a Milano a casa delle Anne (Annalisa De Marco e Anna Borella) ed ora stiamo aspettando l’ennesimo aereo di quest’anno. La delegazione italiana è folta e ci sono tutti i migliori specialisti. Ci siamo noi del boulder, c’è la lead, ci sono i velocisti e ci sono anche quelli del paraclimb. Ancora un po’ rintronato entro all’aeroporto e vengo travolto dalla baraonda milanese. Gente che va, gente che viene. Arriviamo al punto di incontro prestabilito, inizia il giro di saluti. Dietro di me sento urlare, con un forte accento toscano: “AH ORBO!”. Mi volto, ad urlare è Alessio Cornamusini, il destinatario della sua pittoresca comunicazione è Simone Salvagnin. Guardo Gabri, scoppiamo a ridere. Questa è stata la mia prima esperienza con il paraclimb.

Il mondiale di Parigi è stata la prima occasione per venire a contatto con il mondo del paraclimb. Onestamente, non ero pronto affatto. Non sapevo come comportarmi, un po’ li vedevo con compassione e un po’ ero a disagio, percepivo di non sapere minimamente come dovessi pormi. Quell’esperienza mi ha un po’ frastornato. Tornato a casa, ho iniziato a lavoricchiare con i disabili in palestra, saltuariamente. Quasi tutti noi “normali” all’inizio siamo spaventati, non sappiamo bene come comportarci, cosa dire. Li vediamo come dei poverini, li compatiamo. Un po’ è perchè giustifichiamo la nostra fortuna, un po’ perchè siamo ignoranti e un po’ perché la società difficilmente aiuta a interagire. Lavorando con una classe di disabili, insegnando loro ad arrampicare, ho capito che non c’è nulla di più sbagliato. Vedevo questa decina di ragazzi scalare insieme e prendersi in giro (oh ma, cattivi eh) l’un l’altro in base a cosa li distingueva. Ho realizzato che il concetto di normalità è proprio una cagata pazzesca. Ovvio, non è sempre facile. Sei abituato a parlare con un tuo amico semplicemente attivando la voce e ti trovi a cercare gesti e mimica per spiegare cos’è la scalata e cosa deve fare. Per me è stato oro, un’esperienza unica che mi ha permesso di imparare ad escogitare soluzioni diverse e pensare fuori dagli schemi. 

Qualche anno dopo ho iniziato a lavorare con Up Climbing e, non ricordo in che occasione, ho scritto a Simone Salvagnin per fare un articolo sul paraclimb. Abbiamo chiacchierato un botto quel giorno e, una volta agganciato il telefono, ho realizzato quanto potente fosse la sua storia, quanto fosse matto e quanto avesse da insegnare a tanti di noi. Immaginate di nascere, di essere un bambino bello attivo. Immaginate di iniziare a capire che pian piano non vedi più come vedevi l’altro giorno. Immaginate di perdere la vista, ricordandovi però com’era vedere. Una bella mazzata eh? Lo è stato anche per lui, ovviamente. Avete presente quando leggete o sentite una frase che vi cambia la vita? A me è successo con lui. Mi ha detto che di fronte ad una cosa così, o ti spegni, o ti dai una bella sveglia e capisci come fare tutto in un altro modo. Potente vero? Negli anni ha vinto medaglie nelle più importanti competizioni internazionali di arrampicata, ha fatto viaggi, ha studiato, ha trovato traguardi lavorativi fuori dal comune. Ma ve lo immaginate uno che non vede che va in bici? Ecco, lui l’ha fatto! Ed ha fatto spedizioni, è stato in Himalaya, è arrivato vicino a salire l’8a… Oltre a questo, ha creato insieme alla sua compagna Lucia un portale per le attività dedicate ai disabili che non sanno stare fermi, per trasmettere il loro know how maturato negli anni e mettere in contatto queste piccole realtà. 

Poi un giorno ho visto un’iniziativa “sportiva” nata nel cuneese che mi ha dato da pensare. Di per sé, a parer mio, non era nulla di fuori dal normale. Ha avuto però un bel successo mediatico, il che mi ha fatto riflettere. Ho pensato che, con uno scopo benefico, sarebbe stata una figata quella piccola iniziativa, mentre era stata una cosa fine a sé stessa. Ho realizzato che siamo quasi sempre focalizzati sul nostro percorso, sul trovare uno sponsor per noi, che finanzi le nostre attività, che ci fornisca il materiale per le nostre esperienze. Il che è sacrosanto, però… Perché non ho mai fatto nulla per gli altri? Perché non usare la mia realtà per fare qualcosa di carino per qualcun altro? Ho chiamato subito Simone.

Quel pazzo è sempre un pozzo di idee e, parlandone insieme, abbiamo tirato fuori un sacco di cose interessanti. Ho sentito poi un po’ di amici, mi sono confrontato, ho chiesto consiglio. Avevo mesi a disposizione, l’unica cosa che sapevo è che volevo usare la mia stagione di gare, seppur lontana dai lustri di un tempo, per raccogliere dei soldi. Con il passare delle settimane però l’entusiasmo mi è un po’ sceso e ho perso motivazione. In realtà, avevo solo  paura di non essere capace. Poi, parla con uno, parla con l’altro, ho trovato la quadra. Il progetto finale è proprio come volevo io: piccolo, sul territorio, legato all’arrampicata. Volevo che fosse piccolo perché queste iniziative non sono molto comuni. Poi per me è la prima volta e non so bene come muovermi, non voglio fare il passo più lungo della gamba, motivo per il quale poi ho deciso di mantenerlo sul territorio. Poi beh, l’arrampicata doveva esserci per forza!

Per farvela breve, raccolgo fondi appoggiandomi ad una piattaforma in modo da dare un’immagine di serietà, che è importante in queste cose secondo me, soprattutto per chi fa i primi passi. Ci saranno ovviamente delle spese da sostenere per questo appoggio, che coprirò io, in modo da non togliere fondi ai destinatari. Come verranno usati i fondi? Semplice. Tramite l’associazione ciechi, l’asl e altre realtà sul territorio, daremo la possibilità di partecipare in maniera totalmente gratuita (se sarete generosi ovviamente) ad una giornata con i tecnici di Emozionabile e Simone Salvagnin. Durante questa giornata, i partecipanti verranno introdotti al mondo dell’arrampicata, che risulterà però solo un mezzo per poter trasportare capacità importanti, come consapevolezza, perseveranza e quant’altro riguardante la crescita personale. La giornata sarà organizzata a fine estate nel cuneese, immersi nella natura della valle Stura. 

In tanti hanno già donato, con le loro possibilità, e siamo ad un terzo circa dei fondi che servono a pagare i tecnici e gli istruttori di arrampicata che aiuteranno i tecnici nelle fasi di azione verticale. Se vi va di aiutare questo progetto, potete fare una piccola donazione tramite il link qui sotto, piuttosto che condividere e far arrivare la parola a più gente possibile. Più arriviamo vicino al budget che ho impostato e migliore sarà l’esperienza che offriremo ai partecipanti. Basta leggere ora, ci serve tutto l’aiuto possibile!

LINK PER LA DONAZIONE

PIÙ PRIMI CHE ULTIMI

Ah, la scalata, che ecosistema magnifico. Uno sport che si pratica all’aperto come al chiuso, una disciplina senza età. Poi è facile imparare, è una disciplina piena di maestri.

Facciamo un passo indietro. Io non ho mai fatto corsi di arrampicata da allievo. Le uniche volte che, in ambito “hobby e passioni” ho pagato qualcuno per insegnarmi sono state il maestro di sci e l’istruttore di moto. Quest’ultima particolarmente mi ha colpito. Per diventare istruttore di motociclismo occorre superare dei test molto selettivi e le capacità richieste sono davvero fuori dal comune. La professionalità poi è assoluta e si vede dalle piccole cose, ad esempio l’abbigliamento: non ho mai visto un istruttore entrare in pista senza tutto l’abbigliamento necessario. Nell’arrampicata… Va beh, non commentiamo. Andiamo oltre. 

Questa piccola premessa era doverosa per indicare il fatto che a me di persona personalmente, dei corsi e di essere accompagnato a scalare non è che proprio mi tocchi più di tanto. Altre persone invece hanno investito, investono o vogliono investire la loro professione su queste attività. Ultimamente, ho pubblicato un articolo su Up che ha destato parecchi commenti pubblicati sia sotto al post che in via privata. L’argomento è sempre il solito,ovvero il maestro di arrampicata. Ora, molti pensano che io sia contro le guide alpine, piuttosto che contro a una cosa o pro ad un’altra, ma è un mito da sfatare. Io sono contro a chi non merita, per le sue capacità, di permettersi di insegnare. Conosco guide validissime, con cui mi confronto e che vedo come persone e professionisti di assoluto valore, come altri istruttori FASI, ACLI ecc. Conosco altresì gente che, pur avendo la coccarda (di qualsiasi famiglia) ha un livello generale (non solo il grado) imbarazzante e dovrebbe essere un allievo, non un insegnante.  Visto che non sono un giurista, non entro nel merito di cosa sia lecito o non lecito fare, ma mi pongo una domanda a monte: ma c’è qualcuno che si chiede se effettivamente ha qualcosa da insegnare? Abbiamo veramente bisogno di tutti sti istruttori?

Facciamo un discorso più ampio. Professionisti, associazione, promozione sportiva… Nel 2022 chiunque può trovare qualcosa da insegnare. Ci son quasi più maestri che allievi. Non mi riferisco solo all’arrampicata, ma a tantissime altre discipline che sono nate negli ultimi anni e che vedo spesso praticare. Gente che fa, che ne so, il muratore, e la sera fa il personal trainer, piuttosto che impartisce lezioni di qualche strana disciplina moderna. Io ho tutto il rispetto del mondo per il muratore, mio nonno lo era, ma non penso si sarebbe sognato di andare a insegnare la “camminata sulla fune tesa” dopo essere uscito dal cantiere. Io lavoro in un negozio, non è che la sera mi metto ad insegnare ad andare in moto, perché sono appassionato e ogni tanto appoggio il ginocchio a terra. 

Nel 2020, in generale, sembra che siano tutti alla ricerca del modo per cui si può effettivamente insegnare qualcosa (esempio, a scalare), senza che nessuno si domandi se effettivamente si è in grado e se si hanno le competenze e le condizioni per farlo. Il problema, a mio avviso, dovrebbe riguardare l’etica dell’insegnamento tanto quanto la possibilità di poter esercitare. Il problema che nasce poi dalla grande disponibilità di vie è uno: quantità che vince sulla qualità. Per avere tanti istruttori, i corsi sono spesso sommari (non mi rivolgo a nessun caso in particolare nel mondo dell’arrampicata, è un discorso più generale) e non viene lasciato alcunché agli aspiranti istruttori-tecnici null’altro che tante belle parole ed un pezzo di carta (molto spesso poi di dubbia valenza). Nel momento in cui prendi dei soldi per fare qualcosa, devi farlo bene. Mi è capitato di vedere una guida, che ha palesato anche la sua presenza come tale, salire a tentoni un quarto grado con le scarpe da avvicinamento, assicurato da un bambino, evidentemente fuori dalla forma fisica ideale che si addice ad un professionista della montagna; allo stesso modo, mi è capitato di vedere istruttori FASI dimostrare i blocchi con le Crocs o le Nike ai piedi. Ovviamente il problema non sono né le guide e né la federazione, ma le persone che con arroganza assumono dei comportamenti ben poco consoni alla loro figura, gettando ombra su tanti altri che lavorano invece al meglio.

Principalmente assistiamo a tre figure oggi (con le dovute eccezioni): chi fa da solo, chi fa sugli altri e chi giudica. I primi, gli unici che potrebbero avere voce in capitolo, sono coloro che avviano la loro attività contando su se stessi; vanno avanti comunque, non si curano di nulla perché hanno fiducia nelle loro capacità e in cosa propongono, non si lamentano praticamente mai. I secondi fanno, ma campando sulle spalle degli altri, approfittando di risorse, spazi ecc; temono la concorrenza ma finché non li tocca va bene così, galleggiano senza strafare. Gli ultimi, e non dico i terzi, dico gli ultimi, sono quelli che nella vita fanno poco, se non criticare, giudicare, indicare agli altri cosa fare. Nella mia carriera, se mi avessero dato un euro ogni volta che mi dicevano “secondo me dovresti”, sarei ricco. Dovresti fare falesia, dovresti insegnare, dovresti diventare questo, dovresti fare ghiaccio… Col livello che hai tu! Ma cosa vuol dire? Fortunatamente sono testone e vado avanti per la mia strada, senza curarmi troppo di quelli che indicano la vita gli altri. Riallacciandomi al discorso iniziale: nel mio piccolo, vorrei che nell’arrampicata si andasse insieme verso qualcosa, piuttosto che unirsi sotto un nemico comune. Vorrei più primi e meno ultimi.